Non a tutti piacciono gli arbusti.
Sara Gavazzi
Oggi, a Berlino, il verde è necessità, è vita, è rivincita.
La città è costellata da parchi e giardini, piccole-grandi pause entro cui si possono scoprire importanti monumenti. La natura rifinisce l’esterno, abbellendolo o semplicemente accompagnandolo, e rende vivo l’interno. Ne è un esempio il Jüdisches Museum, il museo ebraico più grande d’Europa. Percorrendo l’edificio progettato da Daniel Libeskind, si entra nel Giardino dell’Esilio. Posto a conclusione di uno dei tre assi, rappresentazioni delle varie e distinte sorti toccate al popolo ebraico, costituisce uno spazio aperto adiacente alla struttura. La superficie quadrata si distribuisce secondo uno schema a scacchiera di pilastri in cemento alti 6 metri. I parallelepipedi sono 48, in ricordo dell’anno di nascita dello stato di Israele, più 1, il centrale, simboleggiante Berlino e riempito internamente della terra di Gerusalemme. Lo spettatore si perde in questo labirinto grezzo ed è ulteriormente destabilizzato dall'inclinazione del piano di calpestio. Tutto pende, tutto è instabile, tutto è disagio, come in passato è stato. Una sensazione di mal di mare che non si placa neanche fermandosi sulle sedute, anch'esse inclinate e scomode. La riflessione sulla storia ebraica deve sempre continuare anche e soprattutto nei momenti di pausa. Uno scenario emotivamente forte che trova pace solo nello sguardo verso il cielo. Sulla sommità dei pilastri infatti sorgono gli olivi, emblemi di pace e speranza. E proprio come questi riescono a perdurare in tali cavità anche coloro che sono esiliati devono trovare la forza di rincominciare a vivere. Questo è solo un caso di quanto un albero riesca a comunicare. Siamo nati nella natura e con questa, da sempre, ci confrontiamo, spesso la rinneghiamo ma in lei comunque troviamo conforto. Alla fine del Diluvio Universale la colomba portò a Noè un rametto d’olivo; è così: una pianta era e sarà sempre l’inizio di qualcosa.
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Dietro ad un angolo di Madrid, nascosto tra il Museo del Prado e il Reina Sofia, si svela un gioco insolito.
Il prospetto lungo la via, prevalentemente grigio, fortemente squadrato ed ordinato, si fa verde, marrone, lilla, rosa e giallo, mosso e vivo, diviene giardino. La parete alta 24 m è stata completamente rivestita dal biologo francese Patrick Blanc. Egli progetta un giardino verticale ad introduzione del Caixa Forum, galleria d’arte contemporanea opera degli architetti svizzeri Herzog e de Meuron. Quest’ultimo, grande esempio di architettura industriale, nasce nel 2001 dalla ristrutturazione e dallo straordinario sollevamento di una vecchia centrale elettrica. I mattoni del XIXº secolo, infatti, sono stati rialzati su pilastri creando un passaggio fruibile da tutta la comunità. All'improvviso, passeggiando tra le vie più turistiche della città si finisce dunque in un lotto sottosopra, dove i giardini sono verticali e gli edifici coerentemente fluttuano. Un’operazione particolare che richiama in minima scala le attuali tendenze umane che puntano a staccarsi dalla terra e volgere lo sguardo sempre più in alto. Le villette fanno spazio ai palazzi ed i palazzi vengono superati dai grattacieli. Non c’è limite se non il cielo, ci insegnano. La città vince sulla campagna, il costruito sull'inedificato, il pieno sul vuoto e così via in una spirale che va sempre più veloce. La terra appare sempre più lontana da noi ma ciò ci dimostra che non è affatto così. Questo espediente, che ad oggi non risulta affatto insolito, permette di avere un nuovo punto di vista sulla città e di creare, in un gioco di incastri sapienti, spazi verdi in aeree altamente edificate. In questo caso il muro vegetale, composto da circa 15000 piante di 250 specie diverse, si pone in continuum con i giardini del Paseo del Prado ed in contrasto con l’assetto grezzo e metallico del museo che affianca. Un semplice sistema in feltro e pvc che non colpisce solo a livello visivo ma anche e soprattutto a livello morale e salutare tutta la popolazione. Un grande gesto che può essere fatto in piccolo da ognuno di noi; guarda l’edera che avvolge la tua casa o il vaso sul terrazzo. Basta un fiore sul comodino per far entrare la natura in camera. "La natura esiste senza di noi, ma noi non esistiamo senza la natura”
lessi poco tempo fa. Una frase che dovrebbe far pensare tutti noi, così chiara, come l’acqua che stiamo lentamente e irreversibilmente danneggiando, così diretta, come la conseguenza dei nostri atteggiamenti. Le decisioni che i governi mondiali prenderanno in campo ambientale in questi 10 anni potrebbero determinare concretamente i prossimi 10 000. Ad oggi, è stimato che nel 2050 il peso della plastica dispersa nei mari supererà quello dei pesci. I dati parlano, eppure noi non li ascoltiamo da troppo tempo. Proviamo a pensare: che valore ha l’acqua? Sostanzialmente dipende dal suo essere fisicamente presente dove vogliamo che sia e nella giusta quantità. Proprio per questa ragione, essa deve essere vista come una risorsa scarsa, che ha quindi un prezzo. Prendere in considerazione questo elemento non significa evidenziare quanto sia importante, affascinante o poetico ma quanto sia limitato nei paesi in cui la gente ne ha bisogno. Un pensiero che si esprime in indifferenza, per coloro che possono pagare quel prezzo, ed in condanna per tutti gli altri. Non fare la raccolta differenziata, lasciare l’acqua aperta, lasciare i rifiuti a terra, lanciare il pacchetto delle sigarette dal finestrino, spegnere le sigarette dove capita, chiedere un sacchetto di plastica in più alla commessa, vivere di usa e getta, abbandonare oggetti in spiaggia, prendere la macchina per fare 300 metri e così all'infinito. Prendine una, pensaci e migliorati. “Vabbè chissenefrega!” diciamo noi, uomini e donne, quando chi se ne frega non lo dicono più nemmeno i bambini, che manifestano per il loro futuro sempre più in bilico. Ecco! L’illusione è questa: nemmeno il nostro è così tanto certo. Viviamo nell'automatismo:
ci svegliamo, guardiamo i social, guardiamo i social, guardiamo i social, andiamo a letto e guardiamo i social. Un gesto più frequente che consapevole. Un modo di vivere e di condividere. Ma cos'è la vera condivisione?! È un dono, è la necessità che garantisce la sopravvivenza del genere umano. "Dividere con l’altro" è dunque atto primario d’evoluzione. Ma allora qual è il problema? Non è ne' il Dividere ne' il Con, è l'Altro. Stiamo oramai da tempo attraversando un periodo di totale chiusura fisica e mentale che ci spoglia lentamente di qualsiasi morale. L’altro è lo sconosciuto, il vagabondo, lo straniero. Tutti oggetti che non ci danno una puntuale e precisa indicazione/identificazione. Ciò non ci deve spaventare. Eppure ci spaventa. La nostra eredità storica ci regala il concetto di Xenia, l'ospitalità. Nell’antica Grecia infatti, secondo tale regola etica, era inconcepibile domandare chi fosse l'estraneo prima di accoglierlo. Tutto questo in nome di un'apparenza o parvenza divina. Per un famoso poeta, non esisteva, secondo i Greci, l'ultimo degli uomini. L'uomo era sempre il primo, cioè divino. Siamo cresciuti con il mito di Odisseo, lo straniero per eccellenza, e ,ribadisco, eppure ci spaventa. Dalle persone conseguono le cose e viceversa. Durante la seconda guerra mondiale, raccontava l’Elia, che gli Americani facevano cadere dal cielo delle casse piene di “roba nera”; pensava fosse carbone e invece era tutt’altro, era una cosa a lei sconosciuta, era la cioccolata! E così vale anche per le piante. Vi sono specie straniere definite aliene, cattive, vietate, come la Robinia, l’Ailanthus, la Buddleja, ecc. Sono veramente pericolose o sono una risorsa? A fine ‘800 la vite americana utilizzata come portinnesto salvò i vigneti europei dalla fillossera. È un fatto storico certo. Con qualche seme di albero straniero di facile riproduzione, a contrastare le belle quanto fragili palme, gli abitanti dell’Isola di Pasqua si sarebbero comunque estinti? E noi cosa vogliamo fare? Ci accontentiamo di pensare che è carbone o scopriamo la cioccolata? Free space: spazio libero.
La 16esima Biennale d’architettura di Venezia, che si è chiusa qualche giorno fa, racconta tutto questo. Dico “tutto” perché le interpretazioni che si possono ottenere da tale tema sono infinite, sfumature soggettive che ognuno di noi si dipinge in testa. I diversi padiglioni, presso i giardini, hanno declinato a loro piacimento l’idea di free space. Inteso come spazio nuovo, vuoto, negato, ricostruito, ricavato, perso ed inimmaginabile, come momento di svago, come riflessione e valorizzazione, come unione tra uomini, tra ambienti e tra uomo e ambiente. Una scelta particolare è stata fatta da Lundén per l’installazione allestita all’interno del padiglione dei Paesi Nordici. Another generosity, è il suo nome. Another generosity è incontro e discussione su un nuovo tipo di generosità che non si concentra tanto sulle relazioni interpersonali quanto sullo scambio, che avviene o meno, tra uomo e ambiente. Più dettagliatamente l’allestimento si compone di “cellule”, strutture gonfiabili, in membrana trasparente, riempite di aria ed acqua, i due veri archetipi, ciò che di più semplice e naturale vi è. Le suddette, collegate con l’esterno tramite cavi dotati di sensori appositamente pensati, mutano in base a tutti gli stimoli ambientali che captano. Lo spettatore, alienato e incantato, noterà quindi movimenti, suoni e colori, tutti nati e scaturiti dall’ecosistema circostante. Sintesi misera di un progetto notevole, posto in una struttura altrettanto notevole progettata dell’architetto Sverre Fehn. La chiave di lettura è quella di rievocare un nuovo o ormai vecchissimo senso di umanità tramite una maggior consapevolezza dell’ambiente in generale, che esso sia Architettura o Natura. Alla fine natura e uomo diventano sinonimi , l’uno dipende dall’altra e viceversa. Cerchiamo di essere più generosi con ciò che ci circonda, con noi stessi. “E la vita è così forte
che attraversa i muri per farsi vedere La vita è così vera che sembra impossibile doverla lasciare La vita è così grande che quando sarai sul punto di morire pianterai un ulivo convinto ancora di vederlo fiorire” scrive Vecchioni. Quanto sia grande il valore di questa pianta è difficilmente spiegabile. Sin dall’antichità l’olivo viene venerato per la sua essenzialità; secondo la mitologia fu il sacro dono che la dea Atena concesse all’umanità. Un dono in grado di generarne altri, un albero sempreverde forte e longevo che dà olive, che, a loro volta, danno olio. Un circolo di presenti che racchiude una famiglia, una società, una cultura. Mi è sempre stato insegnato l’amore per l’olivo e l’impegno che richiede la raccolta dei suoi frutti. Proprio quest’ultima ha sempre travolto i miei nonni come se fosse una grande festa. Da piccola mi chiedevo come facessero a paragonare una cosa così stancante al Natale, poi però sono cresciuta e ho visto. Ho visto il sacrificio che un uomo deve fare per campare, ho visto quanto sia facile sprecare per meri capricci, ho visto l’ingiustizia ma anche la cura e la dedizione, ho visto il tronco, le foglie, l’olive e l’olio, ho visto l’argento e l’oro. Ogni volta che mi immergo in un oliveto e rimango ammaliata dal bagliore argenteo, ogni volta che dal frantoio vedo tornare bottiglioni dorati, ogni volta capisco quanto questa tradizione sia preziosa e necessaria. Atena ci fece un dono, io quel dono lo rivedo nella mia famiglia che ride e bruca. L’olivo è la nostra storia, che ci rende lavoratori uniti e felici. Tutto ciò che dovremmo essere gli altri 11 mesi dell’anno Ha ragione Vecchioni, la vita è così forte, vera, grande.. e sogna, ragazzo, sogna! “Costruire è di per sé un atto sacro, è un'azione che trasforma una condizione di natura in una condizione di cultura” scrive Mario Botta.
Qualche tempo fa lessi questa frase e la rilessi, pensai e la rilessi ancora; oggi ci ripenso e la rileggo, la rileggo all'infinito e ogni volta cambio idea. Innesco in me una situazione quasi buffa in tutte le occasioni in cui mi ci imbatto o mi riaffiora in testa. Penso all'architettura in generale, a quello che mi suscita, a quanto poco ancora ne so, e, da lì, arrivo a pensare alla vita, al presente, al futuro e così via, entrando in un loop incredibile di turbe mentali che spero non affliggano solo me. Rimbalzo sempre tra le parole natura e cultura. Che legame hanno? Sono l'una conseguenza dell'altra? Mah, sì, boh, no. Lo devo ancora capire. Teoricamente, la natura è ciò che sta per nascere, tutto ciò che esiste ed è esistito, la cultura invece, dal verbo latino "colere", coltivare, è, per definizione, l’insieme di saperi, opinioni, tradizioni e comportamenti che caratterizzano un gruppo umano. Praticamente, c’è l'uva e la vendemmia, c’è un campo e un casolare, c’è un fiore e chi l'annaffia. È incredibile come una forma/uno spazio così semplice e puro possa inconsciamente creare qualcosa di fisico e sociale. Perché la vendemmia non è solo un mero atto lavorativo, è la comunione di una famiglia, e un casolare non è soltanto un manufatto edilizio, è vita. Dalla natura e per la natura sono scaturite una serie di tradizione e usi che ogni individuo e collettività ha fatto proprio. I nostri saperi nascono dalla natura e la natura vive grazie ai nostri saperi. È un immenso circolo che ci lega e che ci deve responsabilizzare nei confronti dell’ambiente in generale. Troppo spesso scindiamo natura e cultura, uomo e paesaggio e va a finire che i pesci sono fatti di plastica e la gente respira rifiuti tossici. Dalla definizione di spazio architettonico all'incongruenza umana che crea e distrugge c’è un bel volo pindarico, ma oggi è andata così. Oggi costruire e coltivare mi son sembrati sinonimi, domani chissà... d'altronde come si dice? Finché non tocca a te, non ti preoccupare, va tutto bene.
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AutoreSara Gavazzi Categorie
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Aprile 2023
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