Non a tutti piacciono gli arbusti.
Sara Gavazzi
“Ma quest’anno l’albero come si fa?!”
Inizia sempre così il mio Natale. Il vivaio si riempie di alberi natalizi. Picea e Abies occupano le prime file. E, come nel più classico dei film, arrivano le famiglie in cerca del loro. Ma perché addobbiamo un albero? I miti nordici capaci di rispondere a tale domanda sono tanti, antichi e spesso poco attendibili. Tuttavia, alla base di ciò, sicuramente vi è la comune usanza di riconoscere l’albero come qualcosa di sacro, un simbolo universale di vita. E, per rafforzare il messaggio, a Natale c’è proprio un sempreverde, come l’abete per l’appunto. Eppure l’unica cosa che conta quando si sceglie il proprio albero di Natale è che ci piaccia. Che sia un abete, un peccio, un tiglio, un olivo o qualsiasi tipologia di bonsai, non è importante, alla fine, serve solo che ci riscaldi e ci illumini. Il metodo migliore perché ciò avvenga me lo insegna nonna da tempo. Poche semplici regole. Che si addobbi a caso o con minuzia, in compagnia o da soli, ballandoci attorno o litigando un po’, basta: Sceglierlo. Costruirlo. Ammirarlo. Prendersene cura. (Magari) Ripiantarlo finite le feste. Crescerci insieme. E fissare con lui un appuntamento per l’anno prossimo. Bello, no?
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Il cipresso mi ricorda casa.
Il cipresso mi ricorda la Toscana. Il cipresso mi ricorda le feste. Il cipresso mi ricorda la morte e soprattutto la vita Viaggiare per le dolci colline toscane significa attraversare i viali di cipressi, un’azione implica l’altra e viceversa. Il susseguirsi degli alti fusti crea un gioco di luci ed ombre così suggestivo che mai abitua né smette di affascinare. L’orizzonte tra i due filari sembra sempre così lontano, non a caso è simbolo di eternità fin dall’antichità. Il mito greco narra di Ciparisso, un bellissimo giovane che per errore uccise il suo fedele compagno d’avventure, un maestoso cervo caro agli dei. La disperazione del giovane fu tanta da portarlo ad invocare la morte. Alle sue preghiere rispose Apollo, che, innamorato e commosso, non esitò a trasformare Ciparisso nell’albero a noi tutti noto per liberarlo dal dolore. D’altronde la resistenza e l’adattabilità sono caratteristiche primarie del cipresso, che tanto svetta verso il cielo quanto scende dritto in profondità. In effetti… Il cipresso mi ricorda di stare con i piedi a terra ma di guardare sempre in alto, fino alla cima ed oltre. Agosto 2022_
Mi trovo a Livigno a trascorrere gli ultimi giorni di vacanza. Inizia a calare il sole e io cammino, cammino svelta per il paese e, stranamente, ho freddo, ci sono 18 gradi, non sono abituata, cammino, quasi corro, un’altra manciata di minuti ed eccomi, ci sono… WOW il lago. Lo guardo ammirata uscire dai monti che lo contengono, quasi come un artista che di sbieco attraversa il sipario chiuso e arriva sul proscenio. Ed io sono lì, tra il pubblico, in prima fila. MA qualcosa non torna. C’è troppa distanza tra me e le sue acque color ottanio. A separarci un lembo di terra, piuttosto lungo. Il lago si è ritirato, tanto. Se da riva è evidente, dall’alto, da Crap de la Parè, questo strano scenario si conferma. MA, un attimo, bisogna innanzitutto sapere che il lago di Livigno è, di fatto, un bacino artificiale e che l’uso ed il consumo delle sue acque non è affatto costante. Il lago è stato sfruttato più del previsto, penso. MA quanta energia servirà ancora? Per quanto riusciremo ad andare avanti così? A due mesi dal mio rientro in Toscana il caldo è ancora troppo e le piogge poche. Il cambiamento climatico è un dato più che oggettivo: durante l’inverno passato in Italia sono state stimate l’80% di piogge in meno rispetto a quella che era la media stagionale. Difficile rimanere sorpresi di fronte a tale conseguenza, d’altronde da noi tutto è partito. Le previsioni future non son rassicuranti, questo, infatti, sarà il miglior spettacolo a cui d’ora in poi potremmo assistere. Oggi è zero, domani sarà meno 1 e così via. MA cosa possiamo fare? Come possiamo salvare un mondo con la febbre? Diminuire gli sprechi, scegliere cibi di stagione, limitare il consumo di carne e pregare soprattuto in una politica sempre più attenta ai bisogni ambientali. MA che voglia abbiamo di farlo? MA quanto è bello il color ottanio? MA lo rivedrò? MA… Una settimana dopo le dichiarazioni inerenti allo Stadio Artemio Franchi, opera di uno dei più grandi ingegneri mai avuti, Pier Luigi Nervi, vogliamo continuà a fa’ polemica.
Ma prima informiamoci. Nel 1955 Pier Luigi Nervi pubblicò “Costruire correttamente”. Qui, l’ingegnere s’interrogò profondamente sulla relazione tra forma e struttura, sostenendo che quest’ultima dovesse avere una qualità architettonica e che, dunque, non potesse porsi solo al servizio della prima. La struttura sarebbe dovuta diventare lei stessa fonte d’ispirazione per la forma. Il materiale che permise a Nervi di rendere atti questi pensieri e che lo rese famoso a livello mondiale fu il calcestruzzo armato, “il più bel sistema costruttivo che l’umanità abbia mai saputo trovare”. La prima opera che lo rese famosissimo sia in Italia che all’estero fu proprio lo Stadio Comunale Giovanni Berta di Firenze, ad oggi noto come Stadio Artemio Franchi. Anche in quel caso le critiche non esitarono ad arrivare. I professionisti italiani e stranieri, che presentarono il progetto sulle riviste di architettura del tempo, puntarono il dito contro due aspetti in particolare: la curva dinamica ad x della rampa di scale e lo slancio della pensilina, che, senza sostegni intermedi, si protende nel vuoto riducendo via via il suo spessore. Ricordiamo che siamo negli anni ‘30, Nervi sta già lavorando con il calcestruzzo da un paio di decenni e sa bene come sfruttare a pieno la resistenza del materiale, riuscendo così a trovare l’equilibrio, laddove non pareva possibile, a ridurre al minimo le sezioni e a slanciarle nel vuoto (la Torre Maratona ne è un altro esempio). Nacque così, una delle più innovative architetture italiane della prima metà del Novecento, un vero e proprio monumento da riconoscere e mantenere, in tutti i sensi. Ma, in fondo, questo è solo e soltanto il prodotto degli infiniti calcoli di un uomo, che con costanza e volontà seppe plasmare la materia, il cemento armato in questo caso, la cosa forse più lontano da ciò che ci riguarda. Tuttavia, oggi più che mai, non si può vivere con i paraocchi e negare per ignoranza, come nel caso sopracitato, o solo per principio quella che è la realtà dei fatti. Un albero capitozzato non rigetterà più, una pianta ancorata male crescerà poco e storta, un pilastro troppo snello cederà. Nervi riusciva a costruire coperture tanto eleganti quanto funzionali, noi proviamo a coltivare piante tanto belle quanto resistenti. Non ci sono forme giuste o sbagliate, ci sono solo forme pensate e/o necessarie per le motivazioni dell’uomo o per il ciclo della natura. Poco meno di un mese fa si concludeva la 17. Mostra Internazionale di Architettura di Venezia.
Qui, i migliaia di progetti esposti avevano lo stesso compito, rispondere ad una precisa domanda: How will we live together? Come potremmo vivere insieme? “Beehive Architecture” era solo una di quelle tantissime risposte raccolte dalla Biennale di quest’anno. Il progetto dello studio Libertiny, come il titolo ci suggerisce, vede come protagoniste le api. Potremmo definire quest’ultime, responsabili di quasi 3/4 dell’impollinazione di tutte le specie vegetali, gli insetti più importanti del pianeta. Le api costituiscono la base della maggior parte degli ecosistemi presenti; sono vita, sono cibo, sono risorsa… anche architettonica. Queste, infatti, possono aiutarci nella progettazione di strutture modulari su ampia scala. Da sempre modellano i loro alveari con incredibile precisione, trasformando piccoli movimenti ripetitivi in gesti artistici. Sono insetti e progettisti professionisti di rivestimenti architettonici leggeri. Tutto ciò, dunque, può essere riproposto, tramite tomografia computerizzata, con diversi materiali ed in diverse dimensioni. Siamo davanti ad un esempio studiato di come tecnologia e natura possono collaborare, l’unica soluzione che ci permetterà di vivere in equilibrio con l’ambiente che ci circonda. La domanda vien da sé: Potrebbe esistere un mondo senza api? Non penso. “Il nostro certificato di garanzia si scrive in base alla presenza delle api”, mi dice sempre lo zio. Non mi immagino un vivaio senza, figuriamoci un futuro. Ve lo immaginate un popolo senza memoria?
Anni ed anni di storia ci definiscono ed identificano, ma, soprattutto, ci ricordano ciò che siamo stati per poter scegliere ciò che ora vogliamo essere. Di cose ne son successe, me lo ricorda lo zio Gino che negli anni ‘40 aveva paura che la lanterna si spegnesse quando di notte faceva pascolare le mucche ed ora usa la torcia del cellulare per cercare le chiavi di casa in borsa. Quest’anno fa 90 anni. Dovremmo essere orgogliosi di quanto siamo cambiati o di quanto abbiamo fatto e costruito. Ma c’è sempre un rovescio della medaglia: assieme alle innovazioni sono arrivate una lunga serie di nuove ossessioni ad impalcarci la testa. Forse solo smontandoci di tutte queste sovrastrutture possiamo apprezzare di nuovo le piccole cose che ogni giorno riceviamo in dono. Riuscire ancora a stupirsi della semplicità è una conquista. Il profumo del basilico fa commuovere lo zio. A me sembra strano, per chi invece ricorda, sa e continua a cercare non lo è affatto. La curiosità è fondamentale per la crescita dell’individuo. Più ci facciamo domande, più scopriamo, più apprendiamo. Essere curiosi è un pregio. Pregevole fu certo Alessandro Magno quando direttamente dall’India riportò in Italia proprio questa piantina. Ve lo immaginate un pesto senza basilico? È stato ed è facile in questo ormai troppo lungo periodo di stop iniziare a fare ciò che avevamo sempre rimandato: abbiamo sistemato con pazienza tutti quei cassetti che tenevamo chiusi e con loro abbiamo ripulito persino noi stessi.
C’è chi ha fatto chiarezza sulla sua vita, chi, dopo tanto, si è riposato, chi ha fatto la pasta in casa per la prima volta e chi ha dato una bella sistemata al giardino. Ci eravamo lasciati così, in una situazione difficile, e, purtroppo, ci ritroviamo ancora qui. Tantissime sono state le idee che ci siamo fatti venire in mente per contrastare questa monotonia, ma ora la vera domanda è: cosa deve fare chi le ha finite? Ecco, in questo caso vorrei avere un prontuario capace di risponde bene e subito, un elenco puntato in cui, a mo’ di Dpcm, si indica ciò che si può e ciò che non si deve fare, ma non ho niente se non qualche esperienza. Chi non ha più idee non deve assolutamente perdere tempo (questo è un monito per voi ed anche per me). Chi non ha più idee non deve perdersi, non deve scordarsi chi è e cosa vuole, non deve smettere di parlare, non deve però nemmeno smettere di ascoltare, non deve far sì che tutti i giorni diventino uguali, non deve far vincere la voce che non ci vuol far alzar dal letto e, soprattutto, non deve scordarsi che non è solo. Deve invece concentrarsi sulle piccole cose ed iniziare ad apprezzarle: addobbare un albero, stare davanti al fuoco di un camino, regalare una Stella di Natale e tanto altro. Proprio l’Euphorbia pulcherrima, nome scientifico della pianta simbolo del periodo natalizio, grazie ad un’antica leggenda che dal Messico, suo luogo d’origine, è giunta sino a noi, ci insegna che anche delle semplici sterpaglie possono diventare splendidi fiori dai colori accessi. Fu così che, secondo tale racconto, la notte di Natale grazie ad un piccolo miracolo nacque la famosa Stella. D’altronde chi più delle piante ci suggerisce come vivere? Basta davvero poco per lasciarsi andare; si può scegliere di rimanere sul fondo ma, impegnandosi con cura ed un po’ di fatica, non sarà mai troppo tardi per sbocciare ancora ed ancora. Ormai questa stanza 4x4 è ciò che conosciamo meglio. Quanti angoli che prima ci sfuggivano si sono finalmente palesati e con loro la voglia di fare qualcosa, qualsiasi cosa.
Spesso sento dire da zio “Solo chi ha un orto si può ritenere ricco”, forse ora più che mai ha davvero ragione. Un giardino, un balcone o anche solo una finestra ci hanno rassicurato e ricordato che ancora esiste un fuori. È alla riscoperta di quest’ultimo che da qualche giorno siamo partiti. Tutto è veramente diverso, anche se diverso forse lo è sempre stato, abbiamo degli occhi nuovi ed ogni dettaglio ha più valore. Ma quanto son più profumate le rose? E questo albero da quanto è qui? Com'è alta l’erba? Ebbene sì, mentre noi non “c’eravamo” la natura si è ripresa gran parte di quegli spazi che per necessità o per sfizio le avevamo tolto. Non è così difficile vedere un marciapiede ormai completamente verde, mentre sembra quasi impossibile riscrivere dei sentieri; nel campo non lontano da casa i nostri passi non si leggono più. Flora e fauna stanno incredibilmente e meravigliosamente prendendo il sopravvento. Una conquistata meritata dopo tutto ciò che di male stavamo facendo. La natura ultimamente aveva infatti raggiunto il limite e la nostra assenza non ha potuto che portare vantaggi: cieli chiari ed acque limpide. Che sia la legge del contrappasso? Chissà, ciò che è certo è che spesso e volentieri il verde è una soluzione, ma noi ce ne scordiamo. Forse dopo tutto questo sarà più difficile dimenticarsene. Forse dovremmo iniziare a fare l’orto. Che cosa rende grande una città?
Le risposte a tale domanda non possono che essere molteplici e varie. Il minimo comune denominatore si può tuttavia riscontrare in una certa qualità, definibile come opportunità, atmosfera, ritmo, ecc., che prescinde dalle particolari volontà di ogni singolo individuo che compone questa grande città. Più o meno così scrive P. Seabright. Ma cosa significa “grande”? In genere, grande è ciò che supera la misura ordinaria in senso proprio o figurato. Pertanto, una città si può dire “grande” anche quando riesce a soddisfare i bisogni dei suoi cittadini. Il concetto di bisogno è alla base del nostro essere. Tutto ciò che facciamo, come ci muoviamo, cosa scegliamo e siamo dipende innanzitutto dalle necessità che abbiamo avuto, abbiamo e per sempre avremo. L'architettura stessa nacque dall'urgenza dei primi uomini di avere un riparo sicuro, una casa. L'obiettivo è divenuto quello di costruire la città ideale, dove tutto si fa “intelligente”. Nel corso dei secoli sono state adottate diverse soluzioni brillanti per ovviare a difficoltà ambientali, politiche, economiche e sociali. E città come Yazd, Masada, Parigi, Torino ecc. ne sono state solo alcuni esempi. Tutto deve rispondere a delle precise domande nel modo più funzionale e semplice possibile, questo è ciò che oggi viene richiesto. Smart deve essere: un’intera città, un processo di smaltimento dei rifiuti, un appartamento, una strada, una lampadina, ma anche una pianta. Quest’ultima prima di essere scelta è necessario che faccia fronte a determinati aspetti. Non si prende più una decisione tenendo in considerazione solo ed esclusivamente il suo profumo o la bellezza del fiore che produce. Ogni dettaglio fa la differenza. Chiediamoci da dove viene, quanto resisterà, di cosa ha bisogno, dove andrà posizionata, quanto crescerà, come lo farà, a cosa ci serve, deve separare, ombreggiare o semplicemente rallegrare? Ognuno di questi problemi ha una sua soluzione, scegliamo la più brillante. Si stima che in Svezia solo l'1% dei rifiuti finisca in discarica. Il paese scandinavo infatti ha scelto i termovalorizzatori, inceneritori che trasformano il calore prodotto durante la combustione dei rifiuti in vapore, usato, a sua volta, per la produzione di energia elettrica. Tale soluzione si posiziona secondo l'EPA un gradino sopra a quella costituita dalla discarica. Con il tempo pertanto si è sviluppato un circolo che ha portato alla quasi obbligata importazione di tonnellate di spazzatura da altri paesi dell'Unione Europea, tra cui l'Italia appunto. La suddetta operazione permette al territorio, incapace di smaltire i rifiuti che produce, di far fronte a tale problema per un costo, in questo caso, di qualche decina di euro a tonnellata. Conveniente.
Però... Oltre alle questioni d'impatto ambientale relative al trasporto e al businness che gira attorno agli inceneritori, il dato su cui soffermarsi è il seguente: Se bruciare la spazzatura risulta così semplice ed economico niente più stimola al riciclaggio. Ciò ha ovviamente acceso un interminabile dibattito. Generalizzando al massimo il caso studio preso in analisi, si evince che “Fare il massimo con il minimo sforzo” è da sempre la prima regola. Moltissimi progetti di tipo no-waste stanno prendendo piede ultimamente, anche in Italia, ma più che sullo sviluppo di tanto funzionali quanto elitarie Smart Cities è forse necessario promuovere la conoscenza del singolo. Della serie: posso avere la raccolta differenziata porta a porta ma se continuo a buttare i cicchini per terra qualcosa non torna. Per arrivare al massimo bisogna partire dal minimo. Da piccoli mentre passeggiavamo per strada raccoglievamo l’immondizia e mamma ci sgridava. Da grandi speriamo di non dover mai sgridare i nostri figli per questo. |
AutoreSara Gavazzi Categorie
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Aprile 2023
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