Non a tutti piacciono gli arbusti.
Sara Gavazzi
Una settimana dopo le dichiarazioni inerenti allo Stadio Artemio Franchi, opera di uno dei più grandi ingegneri mai avuti, Pier Luigi Nervi, vogliamo continuà a fa’ polemica.
Ma prima informiamoci. Nel 1955 Pier Luigi Nervi pubblicò “Costruire correttamente”. Qui, l’ingegnere s’interrogò profondamente sulla relazione tra forma e struttura, sostenendo che quest’ultima dovesse avere una qualità architettonica e che, dunque, non potesse porsi solo al servizio della prima. La struttura sarebbe dovuta diventare lei stessa fonte d’ispirazione per la forma. Il materiale che permise a Nervi di rendere atti questi pensieri e che lo rese famoso a livello mondiale fu il calcestruzzo armato, “il più bel sistema costruttivo che l’umanità abbia mai saputo trovare”. La prima opera che lo rese famosissimo sia in Italia che all’estero fu proprio lo Stadio Comunale Giovanni Berta di Firenze, ad oggi noto come Stadio Artemio Franchi. Anche in quel caso le critiche non esitarono ad arrivare. I professionisti italiani e stranieri, che presentarono il progetto sulle riviste di architettura del tempo, puntarono il dito contro due aspetti in particolare: la curva dinamica ad x della rampa di scale e lo slancio della pensilina, che, senza sostegni intermedi, si protende nel vuoto riducendo via via il suo spessore. Ricordiamo che siamo negli anni ‘30, Nervi sta già lavorando con il calcestruzzo da un paio di decenni e sa bene come sfruttare a pieno la resistenza del materiale, riuscendo così a trovare l’equilibrio, laddove non pareva possibile, a ridurre al minimo le sezioni e a slanciarle nel vuoto (la Torre Maratona ne è un altro esempio). Nacque così, una delle più innovative architetture italiane della prima metà del Novecento, un vero e proprio monumento da riconoscere e mantenere, in tutti i sensi. Ma, in fondo, questo è solo e soltanto il prodotto degli infiniti calcoli di un uomo, che con costanza e volontà seppe plasmare la materia, il cemento armato in questo caso, la cosa forse più lontano da ciò che ci riguarda. Tuttavia, oggi più che mai, non si può vivere con i paraocchi e negare per ignoranza, come nel caso sopracitato, o solo per principio quella che è la realtà dei fatti. Un albero capitozzato non rigetterà più, una pianta ancorata male crescerà poco e storta, un pilastro troppo snello cederà. Nervi riusciva a costruire coperture tanto eleganti quanto funzionali, noi proviamo a coltivare piante tanto belle quanto resistenti. Non ci sono forme giuste o sbagliate, ci sono solo forme pensate e/o necessarie per le motivazioni dell’uomo o per il ciclo della natura.
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Poco meno di un mese fa si concludeva la 17. Mostra Internazionale di Architettura di Venezia.
Qui, i migliaia di progetti esposti avevano lo stesso compito, rispondere ad una precisa domanda: How will we live together? Come potremmo vivere insieme? “Beehive Architecture” era solo una di quelle tantissime risposte raccolte dalla Biennale di quest’anno. Il progetto dello studio Libertiny, come il titolo ci suggerisce, vede come protagoniste le api. Potremmo definire quest’ultime, responsabili di quasi 3/4 dell’impollinazione di tutte le specie vegetali, gli insetti più importanti del pianeta. Le api costituiscono la base della maggior parte degli ecosistemi presenti; sono vita, sono cibo, sono risorsa… anche architettonica. Queste, infatti, possono aiutarci nella progettazione di strutture modulari su ampia scala. Da sempre modellano i loro alveari con incredibile precisione, trasformando piccoli movimenti ripetitivi in gesti artistici. Sono insetti e progettisti professionisti di rivestimenti architettonici leggeri. Tutto ciò, dunque, può essere riproposto, tramite tomografia computerizzata, con diversi materiali ed in diverse dimensioni. Siamo davanti ad un esempio studiato di come tecnologia e natura possono collaborare, l’unica soluzione che ci permetterà di vivere in equilibrio con l’ambiente che ci circonda. La domanda vien da sé: Potrebbe esistere un mondo senza api? Non penso. “Il nostro certificato di garanzia si scrive in base alla presenza delle api”, mi dice sempre lo zio. Non mi immagino un vivaio senza, figuriamoci un futuro. Ve lo immaginate un popolo senza memoria?
Anni ed anni di storia ci definiscono ed identificano, ma, soprattutto, ci ricordano ciò che siamo stati per poter scegliere ciò che ora vogliamo essere. Di cose ne son successe, me lo ricorda lo zio Gino che negli anni ‘40 aveva paura che la lanterna si spegnesse quando di notte faceva pascolare le mucche ed ora usa la torcia del cellulare per cercare le chiavi di casa in borsa. Quest’anno fa 90 anni. Dovremmo essere orgogliosi di quanto siamo cambiati o di quanto abbiamo fatto e costruito. Ma c’è sempre un rovescio della medaglia: assieme alle innovazioni sono arrivate una lunga serie di nuove ossessioni ad impalcarci la testa. Forse solo smontandoci di tutte queste sovrastrutture possiamo apprezzare di nuovo le piccole cose che ogni giorno riceviamo in dono. Riuscire ancora a stupirsi della semplicità è una conquista. Il profumo del basilico fa commuovere lo zio. A me sembra strano, per chi invece ricorda, sa e continua a cercare non lo è affatto. La curiosità è fondamentale per la crescita dell’individuo. Più ci facciamo domande, più scopriamo, più apprendiamo. Essere curiosi è un pregio. Pregevole fu certo Alessandro Magno quando direttamente dall’India riportò in Italia proprio questa piantina. Ve lo immaginate un pesto senza basilico? È stato ed è facile in questo ormai troppo lungo periodo di stop iniziare a fare ciò che avevamo sempre rimandato: abbiamo sistemato con pazienza tutti quei cassetti che tenevamo chiusi e con loro abbiamo ripulito persino noi stessi.
C’è chi ha fatto chiarezza sulla sua vita, chi, dopo tanto, si è riposato, chi ha fatto la pasta in casa per la prima volta e chi ha dato una bella sistemata al giardino. Ci eravamo lasciati così, in una situazione difficile, e, purtroppo, ci ritroviamo ancora qui. Tantissime sono state le idee che ci siamo fatti venire in mente per contrastare questa monotonia, ma ora la vera domanda è: cosa deve fare chi le ha finite? Ecco, in questo caso vorrei avere un prontuario capace di risponde bene e subito, un elenco puntato in cui, a mo’ di Dpcm, si indica ciò che si può e ciò che non si deve fare, ma non ho niente se non qualche esperienza. Chi non ha più idee non deve assolutamente perdere tempo (questo è un monito per voi ed anche per me). Chi non ha più idee non deve perdersi, non deve scordarsi chi è e cosa vuole, non deve smettere di parlare, non deve però nemmeno smettere di ascoltare, non deve far sì che tutti i giorni diventino uguali, non deve far vincere la voce che non ci vuol far alzar dal letto e, soprattutto, non deve scordarsi che non è solo. Deve invece concentrarsi sulle piccole cose ed iniziare ad apprezzarle: addobbare un albero, stare davanti al fuoco di un camino, regalare una Stella di Natale e tanto altro. Proprio l’Euphorbia pulcherrima, nome scientifico della pianta simbolo del periodo natalizio, grazie ad un’antica leggenda che dal Messico, suo luogo d’origine, è giunta sino a noi, ci insegna che anche delle semplici sterpaglie possono diventare splendidi fiori dai colori accessi. Fu così che, secondo tale racconto, la notte di Natale grazie ad un piccolo miracolo nacque la famosa Stella. D’altronde chi più delle piante ci suggerisce come vivere? Basta davvero poco per lasciarsi andare; si può scegliere di rimanere sul fondo ma, impegnandosi con cura ed un po’ di fatica, non sarà mai troppo tardi per sbocciare ancora ed ancora. Ormai questa stanza 4x4 è ciò che conosciamo meglio. Quanti angoli che prima ci sfuggivano si sono finalmente palesati e con loro la voglia di fare qualcosa, qualsiasi cosa.
Spesso sento dire da zio “Solo chi ha un orto si può ritenere ricco”, forse ora più che mai ha davvero ragione. Un giardino, un balcone o anche solo una finestra ci hanno rassicurato e ricordato che ancora esiste un fuori. È alla riscoperta di quest’ultimo che da qualche giorno siamo partiti. Tutto è veramente diverso, anche se diverso forse lo è sempre stato, abbiamo degli occhi nuovi ed ogni dettaglio ha più valore. Ma quanto son più profumate le rose? E questo albero da quanto è qui? Com'è alta l’erba? Ebbene sì, mentre noi non “c’eravamo” la natura si è ripresa gran parte di quegli spazi che per necessità o per sfizio le avevamo tolto. Non è così difficile vedere un marciapiede ormai completamente verde, mentre sembra quasi impossibile riscrivere dei sentieri; nel campo non lontano da casa i nostri passi non si leggono più. Flora e fauna stanno incredibilmente e meravigliosamente prendendo il sopravvento. Una conquistata meritata dopo tutto ciò che di male stavamo facendo. La natura ultimamente aveva infatti raggiunto il limite e la nostra assenza non ha potuto che portare vantaggi: cieli chiari ed acque limpide. Che sia la legge del contrappasso? Chissà, ciò che è certo è che spesso e volentieri il verde è una soluzione, ma noi ce ne scordiamo. Forse dopo tutto questo sarà più difficile dimenticarsene. Forse dovremmo iniziare a fare l’orto. Che cosa rende grande una città?
Le risposte a tale domanda non possono che essere molteplici e varie. Il minimo comune denominatore si può tuttavia riscontrare in una certa qualità, definibile come opportunità, atmosfera, ritmo, ecc., che prescinde dalle particolari volontà di ogni singolo individuo che compone questa grande città. Più o meno così scrive P. Seabright. Ma cosa significa “grande”? In genere, grande è ciò che supera la misura ordinaria in senso proprio o figurato. Pertanto, una città si può dire “grande” anche quando riesce a soddisfare i bisogni dei suoi cittadini. Il concetto di bisogno è alla base del nostro essere. Tutto ciò che facciamo, come ci muoviamo, cosa scegliamo e siamo dipende innanzitutto dalle necessità che abbiamo avuto, abbiamo e per sempre avremo. L'architettura stessa nacque dall'urgenza dei primi uomini di avere un riparo sicuro, una casa. L'obiettivo è divenuto quello di costruire la città ideale, dove tutto si fa “intelligente”. Nel corso dei secoli sono state adottate diverse soluzioni brillanti per ovviare a difficoltà ambientali, politiche, economiche e sociali. E città come Yazd, Masada, Parigi, Torino ecc. ne sono state solo alcuni esempi. Tutto deve rispondere a delle precise domande nel modo più funzionale e semplice possibile, questo è ciò che oggi viene richiesto. Smart deve essere: un’intera città, un processo di smaltimento dei rifiuti, un appartamento, una strada, una lampadina, ma anche una pianta. Quest’ultima prima di essere scelta è necessario che faccia fronte a determinati aspetti. Non si prende più una decisione tenendo in considerazione solo ed esclusivamente il suo profumo o la bellezza del fiore che produce. Ogni dettaglio fa la differenza. Chiediamoci da dove viene, quanto resisterà, di cosa ha bisogno, dove andrà posizionata, quanto crescerà, come lo farà, a cosa ci serve, deve separare, ombreggiare o semplicemente rallegrare? Ognuno di questi problemi ha una sua soluzione, scegliamo la più brillante. Si stima che in Svezia solo l'1% dei rifiuti finisca in discarica. Il paese scandinavo infatti ha scelto i termovalorizzatori, inceneritori che trasformano il calore prodotto durante la combustione dei rifiuti in vapore, usato, a sua volta, per la produzione di energia elettrica. Tale soluzione si posiziona secondo l'EPA un gradino sopra a quella costituita dalla discarica. Con il tempo pertanto si è sviluppato un circolo che ha portato alla quasi obbligata importazione di tonnellate di spazzatura da altri paesi dell'Unione Europea, tra cui l'Italia appunto. La suddetta operazione permette al territorio, incapace di smaltire i rifiuti che produce, di far fronte a tale problema per un costo, in questo caso, di qualche decina di euro a tonnellata. Conveniente.
Però... Oltre alle questioni d'impatto ambientale relative al trasporto e al businness che gira attorno agli inceneritori, il dato su cui soffermarsi è il seguente: Se bruciare la spazzatura risulta così semplice ed economico niente più stimola al riciclaggio. Ciò ha ovviamente acceso un interminabile dibattito. Generalizzando al massimo il caso studio preso in analisi, si evince che “Fare il massimo con il minimo sforzo” è da sempre la prima regola. Moltissimi progetti di tipo no-waste stanno prendendo piede ultimamente, anche in Italia, ma più che sullo sviluppo di tanto funzionali quanto elitarie Smart Cities è forse necessario promuovere la conoscenza del singolo. Della serie: posso avere la raccolta differenziata porta a porta ma se continuo a buttare i cicchini per terra qualcosa non torna. Per arrivare al massimo bisogna partire dal minimo. Da piccoli mentre passeggiavamo per strada raccoglievamo l’immondizia e mamma ci sgridava. Da grandi speriamo di non dover mai sgridare i nostri figli per questo. I semi del girasole si dispongono nella calatide a spirale. Analizzando attentamente si noteranno due gruppi spiraliformi, l’uno con curve poste in direzione oraria, l’altro in direzione antioraria. Si ha un sapiente gioco d’incastri, il cui numero corrisponde sempre ad uno della nota successione di Fibonacci. Le stesse curve si possono ritrovare nelle conchiglie, i cui disegni richiamano la sezione aurea. Dettagli che spesso passano inosservati ma che in realtà nascondono un mondo. È incredibilmente tutto in relazione. Persino la parte più piccola è in contatto con quella più grande. Nel tempo tantissimi artisti e filosofi hanno studiato e apprezzato queste forme come assoluti ideali di bellezza e armonia. Se solo un seme può celare in se’ così tanto, cosa possiamo noi? Tutto si riassume in un rapporto infinito che infinitamente si ripete. Inimmaginabile, eppure è così. Tali proprietà matematiche si ripropongono in diversi ambiti, anche distanti tra loro. La natura, ad esempio, ci mostra le sue geometrie con insistenza (i girasoli e le conchiglie ne sono solo alcune citazioni) tuttavia ci sfuggono. Questo perché non siamo più abituati ad analizzare davvero, ci fermiamo alla prima occhiata, quella basta. Non deve finire in questo modo. Anche il girasole, seppur un po’ goffo e spreciso a prima vista, nasconde la perfezione al suo interno. Ognuno di noi ha un universo dentro, basta saper guardare. Oggi, a Berlino, il verde è necessità, è vita, è rivincita.
La città è costellata da parchi e giardini, piccole-grandi pause entro cui si possono scoprire importanti monumenti. La natura rifinisce l’esterno, abbellendolo o semplicemente accompagnandolo, e rende vivo l’interno. Ne è un esempio il Jüdisches Museum, il museo ebraico più grande d’Europa. Percorrendo l’edificio progettato da Daniel Libeskind, si entra nel Giardino dell’Esilio. Posto a conclusione di uno dei tre assi, rappresentazioni delle varie e distinte sorti toccate al popolo ebraico, costituisce uno spazio aperto adiacente alla struttura. La superficie quadrata si distribuisce secondo uno schema a scacchiera di pilastri in cemento alti 6 metri. I parallelepipedi sono 48, in ricordo dell’anno di nascita dello stato di Israele, più 1, il centrale, simboleggiante Berlino e riempito internamente della terra di Gerusalemme. Lo spettatore si perde in questo labirinto grezzo ed è ulteriormente destabilizzato dall'inclinazione del piano di calpestio. Tutto pende, tutto è instabile, tutto è disagio, come in passato è stato. Una sensazione di mal di mare che non si placa neanche fermandosi sulle sedute, anch'esse inclinate e scomode. La riflessione sulla storia ebraica deve sempre continuare anche e soprattutto nei momenti di pausa. Uno scenario emotivamente forte che trova pace solo nello sguardo verso il cielo. Sulla sommità dei pilastri infatti sorgono gli olivi, emblemi di pace e speranza. E proprio come questi riescono a perdurare in tali cavità anche coloro che sono esiliati devono trovare la forza di rincominciare a vivere. Questo è solo un caso di quanto un albero riesca a comunicare. Siamo nati nella natura e con questa, da sempre, ci confrontiamo, spesso la rinneghiamo ma in lei comunque troviamo conforto. Alla fine del Diluvio Universale la colomba portò a Noè un rametto d’olivo; è così: una pianta era e sarà sempre l’inizio di qualcosa. Dietro ad un angolo di Madrid, nascosto tra il Museo del Prado e il Reina Sofia, si svela un gioco insolito.
Il prospetto lungo la via, prevalentemente grigio, fortemente squadrato ed ordinato, si fa verde, marrone, lilla, rosa e giallo, mosso e vivo, diviene giardino. La parete alta 24 m è stata completamente rivestita dal biologo francese Patrick Blanc. Egli progetta un giardino verticale ad introduzione del Caixa Forum, galleria d’arte contemporanea opera degli architetti svizzeri Herzog e de Meuron. Quest’ultimo, grande esempio di architettura industriale, nasce nel 2001 dalla ristrutturazione e dallo straordinario sollevamento di una vecchia centrale elettrica. I mattoni del XIXº secolo, infatti, sono stati rialzati su pilastri creando un passaggio fruibile da tutta la comunità. All'improvviso, passeggiando tra le vie più turistiche della città si finisce dunque in un lotto sottosopra, dove i giardini sono verticali e gli edifici coerentemente fluttuano. Un’operazione particolare che richiama in minima scala le attuali tendenze umane che puntano a staccarsi dalla terra e volgere lo sguardo sempre più in alto. Le villette fanno spazio ai palazzi ed i palazzi vengono superati dai grattacieli. Non c’è limite se non il cielo, ci insegnano. La città vince sulla campagna, il costruito sull'inedificato, il pieno sul vuoto e così via in una spirale che va sempre più veloce. La terra appare sempre più lontana da noi ma ciò ci dimostra che non è affatto così. Questo espediente, che ad oggi non risulta affatto insolito, permette di avere un nuovo punto di vista sulla città e di creare, in un gioco di incastri sapienti, spazi verdi in aeree altamente edificate. In questo caso il muro vegetale, composto da circa 15000 piante di 250 specie diverse, si pone in continuum con i giardini del Paseo del Prado ed in contrasto con l’assetto grezzo e metallico del museo che affianca. Un semplice sistema in feltro e pvc che non colpisce solo a livello visivo ma anche e soprattutto a livello morale e salutare tutta la popolazione. Un grande gesto che può essere fatto in piccolo da ognuno di noi; guarda l’edera che avvolge la tua casa o il vaso sul terrazzo. Basta un fiore sul comodino per far entrare la natura in camera. |
AutoreSara Gavazzi Categorie
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Dicembre 2021
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